Quando arrivai a San Giorgio di Piano, nel novembre del 1961, la mia prima emozione fu un senso di libertà! A differenza del collegio Trentini dal quale provenivo, che era un edificio storico così imponente con affreschi alle pareti… quattro piani (e O-T-T-A-N-T-A-D-U-E gradini) e circondato da alberi secolari…che mi faceva soggezione solo a guardarlo dal cancello, beh, questo edificio di San Giorgio di Piano era più modesto, una costruzione bianca, moderna, di dimensioni ridotte, con un campetto sportivo alle spalle e l’aia con le galline.
Il tutto circondato da una recinzione metallica, con un cancello d’ingresso che si apriva sulla strada Provinciale. Il cortile interno era ghiaioso e circondato da una siepe di lauro. Salendo la scala di sei gradini si giungeva al portone interno e si entrava nel salone suddiviso da una parte dal refettorio e dalla cucina e dall’altra le camere da letto. La vita in collegio si svolgeva tutta su unico piano con sedici compagni e due direttrici e, a differenza del Trentini, più che in un collegio mi sentivo in una grande famiglia.
I miei compagni erano di diverse età, a partire dai quattro anni e fino a raggiungere i dieci. Io che avevo 11 anni ero il più grande e frequentavo la prima media presso la scuola statale di San Giorgio di Piano. Fu un anno di solitudine sia in collegio sia a scuola, per le difficoltà di adattamento. Non avevo amici della mia età ed ero completamente spaesato. Essendo il più grande nel collegio, mi assegnarono dei compiti e dei servizi di responsabilità che io non avevo mai fatto.
Ogni mattina, appena alzato, dovevo recarmi a piedi al centro del paese, in latteria con il bidone del latte vuoto e rientrare con il bidone pieno di 7 litri di latte; poi lo consegnavo in cucina al collegio dove facevamo colazione con gli avanzi del pane del giorno prima, inzuppato nel latte caldo.
Così iniziava la mia giornata!
Un giorno mentre rientravo al collegio con il bidone pesante del latte, lo appoggiai su un gradino di un bar per riprendere fiato… ma un cliente, uscendo di corsa, inciampò sul bidone che cadendo sparse metà del latte in strada.
Disperato e affranto, cercai di sollevare immediatamente il bidone per salvare più latte possibile, ma il guaio era fatto!
Con le lacrime agli occhi, mi incamminai verso il collegio e fu allora che una signora, che usciva dal cancello della propria casa, ebbe compassione della mia storia e mi offrì i soldi per colmare il bidone del latte versato. Forse una mano del cielo scese su di me… chissà, ma così potei portare ai miei compagni il latte per la colazione.
Un altro servizio che era di mia competenza e che svolgevo all’uscita della scuola era ritirare dal fornaio 10 Kg di pane appena sfornato: riposto in un sacco di juta, che mi caricavo su una spalla e mi scaldava la schiena. Capitava che preso dalla fame me ne smangiucchiassi un pezzetto strada facendo.
All’epoca ero un ragazzino esile, pesavo 30Kg ero alto 1,30 mt e nonostante fossi il maggiore d’età non lo ero certo come struttura fisica. Immaginate quanto fosse faticoso tutto quello che facevo, ma lo facevo veramente volentieri. Per me era una giia poter contribuire alla vita comune, mi rendeva orgoglioso. Padre Marella mi ha accolto senza esitazioni e sono entrato a far parte della sua grande famiglia, dove ognuno doveva prendersi cura dell’altro.
Con lui abbiamo imparato che nulla è dovuto, ma che con l’impegno di ciascuno, pur nelle difficoltà, possiamo cavarcela.
L’affetto e la disponibilità che ho trovato lì dentro mi ha dato fiducia e mi ha insegnato tanto. Dalle piccole cose che poi si sono rivelati importanti per quelle più grandi, alle priorità della vita. Anche oggi, a sessant’anni di distanza da quei giorni di pane e latte… li ricordo come fossero ieri e hanno segnato tutta la mia vita, insegnandomi l’umiltà e la collaborazione. Non lo ringraziaerò mai abbastanza.