Olinto Marella nasce il 14 giugno 1882 a Pellestrina, una piccola isola della laguna veneta situata tra Venezia e Chioggia. È secondogenito di quattro figli maschi: Tullio, Ugo, Antonio e infine Olinto. Pochi giorni dopo la sua nascita, il 27 giugno, nella parrocchia d’Ognissanti di Pellestrina, riceve il battesimo e i nomi di Olinto, Angelo e Giuseppe.
Sua madre Carolina De’ Bei e suo padre Luigi Marella si erano sposati il 12 settembre 1877. Entrambi di buona famiglia, Carolina e Luigi erano tra i pochi benestanti in un’isola ormai sconfitta e rassegnata, consegnata alla povertà, alla pellagra e all’analfabetismo. Luigi era un medico condotto, professione tramandata di padre in figlio nella famiglia Marella e Carolina veniva da Trieste dove insegnava a seguito di un concorso magistrale. Altra figura cruciale nella formazione di Olinto era lo zio paterno, fratello di Luigi, don Giuseppe Marella, arciprete e vicario di Pellestrina. A sei anni Olinto inizia le scuole elementari e trascorre le sue giornate immerso nei libri e correndo nella canonica dello zio Giuseppe. Lo zio lo iscrive al seminario di Chioggia dove Olinto si distingue per l’ottimo rendimento.
Così Olinto viene iscritto al primo ginnasio presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore, a Roma. Da lì uscivano i futuri monsignori, vescovi, candidati alla carriera ecclesiastica o alle più alte cariche ecclesiali. Olinto frequenta gli studi insieme ad Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, che gli rimarrà sempre legato. Il corpo docente era prestigioso, i requisiti di ammissione alti, agli studenti era richiesta dedizione, preparazione morale e spirituale, studio meticoloso, rispetto di regole ferree. La pressione era forte, le regole inflessibili e Olinto era un ragazzo assetato di sapere, leggeva senza tregua, era entusiasta e desideroso di conoscere, aperto ai fermenti di novità e di libertà. Non regge la pressione, si sente «in gabbia, chiuso nel buio, impedito nell’effervescenza indomabile della sua vita». Rientra nella sua Pellestrina e trascorre tutta l’estate nella laguna, passeggiando tra i murazzi e riconciliandosi con il suo desiderio di libertà. Nello stesso periodo perde suo fratello maggiore Ugo a pochi anni di distanza dalla perdita dello zio Mons. Giuseppe Marella e pochi anni prima della perdita del padre Luigi, che avverrà nel 1903.

GLI STUDI

È il 1901 e, al rientro dalla pausa estiva, dopo poco tempo, Olinto lascia il 6 marzo 1902 il Pontificio Seminario Romano Maggiore «per ragioni di salute e desiderio di maggiore libertà» per iscriversi al seminario romano di studi superiori Sant’Apollinare, dove rimane per quasi tre anni. Quel triennio è fondamentale per la formazione del giovane Olinto, perché il nuovo seminario consentiva maggiore libertà, la frequentazione di biblioteche e dei centri di cultura. Proprio fuori da quelle mura Olinto rimane affascinato dalle novità e dalle riflessioni del suo tempo, partecipa a studi, approfondimenti, collabora a riviste e intesse molti contatti.

Vive i mutamenti, frequenta gli incontri dei missionari del Sacro Cuore promossi da padre Genocchi, respira un fermento rinnovatore. Erano gli anni in cui una corrente di pensiero definita come Modernismo stava chiamando in causa molte aree di riflessione e pensiero, anche in ambito teologico. Fu un movimento di rinnovamento teologico – dogmatico e di riforma spirituale diffuso tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 che esprimeva la tendenza a conciliare il dogma con i risultati dell’esegesi storica e con la filosofia moderna e a rinnovare la vita della Chiesa per adeguarla ai tempi moderni. Il movimento spaventava la Chiesa, che lo condannò prima con il decreto Lamentabili e poi con l’Enciclica Pascendi dominici gregis nel settembre 1907, emanata da Papa Pio X. La sete di conoscenza di Olinto lo porta ad approfondire il pensiero di Baldassarre Labanca – noto studioso e filosofo razionalista – del quale segue alcune lezioni, oltre a frequentare i gruppi del sacerdote Romolo Murri, maggiore esponente italiano del Modernismo, di cui apprezza il desiderio di democrazia e di un impegno sociale dei cattolici più incisivo nella vita pubblica. Incrocia il percorso di Antonietta Giacomelli che in quegli anni si interessava delle questioni della giustizia sociale, del ruolo della donna nella società e del rinnovamento culturale e religioso. Giacomelli, che nel 1914 dedicherà il suo libro Per la riscossa cristiana a Olinto Marella, proponeva un modello di donna che intendeva la scrittura come mezzo di educazione civile unito a un necessario un forte impegno sociale.

Gli studi del giovane Marella descrivono un uomo dotato di un’intelligenza vivace, aperta al nuovo, desiderosa di approfondire e interrogarsi. Non si definirà mai modernista e non abbraccerà mai il movimento ribadendo che «il problema critico non sembra dover necessariamente pregiudicare il problema dogmatico». Lo studio per Olinto Marella era uno strumento, non era il fine. Era il necessario veicolo per approfondire il pensiero e dare senso alle azioni, era un mezzo per poter esercitare la sua vocazione per gli ultimi. Quegli anni saranno fondamentali nella formazione del giovane Marella poiché maturano in lui l’urgenza di aiutare spiritualmente e materialmente i più poveri, i bisognosi, gli emarginati. Questo diviene ancora più evidente ogni volta che rientra nella sua Pellestrina, sempre più impoverita e smarrita. Lì comincia ad esercitare la sua missione, prendendosi cura di ammalati e analfabeti.

IL SACERDOTE

Il 17 dicembre 1904 il giovane riceve l’ordinazione sacerdotale dal card. Aristide Cavallari nella cappella del Patriarcato di Venezia. Gli viene affidata la cattedra di Storia ecclesiastica, Esegesi biblica e Storia del Cristianesimo nel seminario di Chioggia, una straordinaria occasione per il giovane sacerdote intellettuale.
Qualcosa però lo tormenta. Ripensa a un episodio di qualche anno prima, al sacerdote di Pellestrina don Renier che, affascinato dalla sensibilità dell’allora seminarista Olinto, gli lasciò in eredità tutti i suoi beni. Quando Olinto andò per appurare in cosa consistesse l’eredità di don Renier si rese conto che non c’era molto, se non carte consumate e vecchi indumenti. L’eredità era la donazione e la spogliazione di sé e delle proprie cose per dedicarsi agli ultimi, era l’eredità spirituale. Per lenire la povertà umana non c’era bisogno di ricchezze, ma di amore e attenzione per il prossimo, di abnegazione e dei germogli della carità.
Il giovane sacerdote Olinto Marella osserva la sua Pellestrina, così desolata e priva di futuro per i giovani abitanti, ripensa all’eredità spirituale di don Renier e comprende che la sua chiamata è per i poveri, per chi non ha speranza: don Olinto si sente chiamato a istruire gli analfabeti, a soccorrere i poveri, a dare accudimento agli emarginati. Chiede aiuto al fratello Tullio, che subito accetta di sostenere don Olinto, devolvendo tutto il denaro lasciatogli in eredità dal padre Luigi e progettando la struttura a cui lui e Olinto avrebbero dato vita sull’isola, il Ricreatorio Popolare. Tullio progetta il Ricreatorio, i suoi spazi, le sue linee.

IL RICREATORIO POPOLARE

Sulla facciata del Ricreatorio si leggeva, e si legge ancora oggi – seppur rovinata dal tempo – la scritta «Qua libertate Christus nos liberavit, 1909» e lungo le pareti «Liberi e forti», «In perfetta letizia», «Amandoci l’un l’altro» e «Carità, carità, carità». Nel 1958 le stesse scritte accompagneranno le giornate dei giovani accolti nella struttura della sua Città dei Ragazzi a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna.
Il Ricreatorio Popolare ospitava un teatro da 300 posti, le sue pareti recitavano frasi dei maggiori educatori e pensatori, insieme a quelle di filosofi, intellettuali, santi e scienziati. Accanto al teatro, una biblioteca di 700 volumi, la banda musicale, il commento al Vangelo della domenica, i giochi e lo sport, fino alla scuola serale per i pescatori. Nasce in quegli anni, e grazie a quell’esperienza, la volontà di don Olinto per l’autogoverno dei ragazzi, esercizio di responsabilità e fiducia, palestra di democrazia e convivenza, di temperanza e carità.
Per consentire ai giovani genitori di dedicarsi al lavoro e ai bimbi più piccoli di essere accuditi, il giovane don Olinto crea anche un asilo all’aperto, che chiama il Giardino d’infanzia, sul modello di una innovativa educatrice, Maria Montessori. Per gli abitanti dell’isola si tratta di opportunità inaudite e impensate, accolte con grande entusiasmo e affidamento. Don Olinto non aveva però fatto i conti con la rigida disciplina del tempo che prevedeva la separazione dei sessi, che osteggiava la promiscuità e attirando così grandi sospetti sulla frequentazione mista del Ricreatorio e del Giardino d’Infanzia. Senza considerare i pregiudizi sull’educazione fisica. Tanto queste iniziative ero accolte con entusiasmo e sollievo dagli abitanti dell’isola, quanto cominciavano ad attirare attenzione e borbottii.
Negli stessi anni il fratello Tullio si esponeva sempre di più nelle battaglie politiche e civili dell’isola, dando voce al malcontento nei confronti dell’autorità e probabilmente aumentando le antipatie dei poteri verso l’originale famiglia Marella e l’operato del giovane sacerdote Olinto, che certo non si sottrae alle rivendicazioni sui doveri della pubblica amministrazione. L’istruzione su tutto: «il nostro popolo, lasciato vivere come le bestie, sarà sempre più privo di soddisfazioni superiori, di ogni godimento intellettuale e morale». L’emancipazione passa attraverso l’istruzione e il suo metodo pedagogico promuove l’intelligenza e la fantasia dei ragazzi, la loro vivacità, la libertà, l’associarsi, la corresponsabilità; perché quei giovani potessero diventare adulti responsabili, cittadini leali e liberi, cristiani impegnati.

LA SOSPENSIONE A DIVINIS

Comincia così un periodo complicato e doloroso per il giovane sacerdote, che nel servizio agli ultimi sapeva di trovare la comunione con Cristo. I preti della zona guardava con sospetto questo insolito sacerdote, sia nelle sue azioni sia nelle sue letture, segnalando al Vescovo – Antonio Bassani – questi inconsueti comportamenti e alimentando un clima di sospetto che diveniva ricorrente a seguito dell’Enciclica Pascendi che definiva eresia modernista ogni ragionamento di novità e ipotizzando che don Olinto fosse «infetto» da tali idee. Diventa un osservato speciale delle più alte cariche ecclesiali che gli contestano letture, frequentazioni, comportamenti innovativi e gli chiedono di rinnegare pubblicamente il Modernismo. Don Marella si dichiara leale alla Chiesa. I sacerdoti della zona non sono però soddisfatti e il vescovo Bassani incalza don Olinto, che dopo essere stato visto pubblicamente parlare con Romolo Murri – ormai ex sacerdote – viene punito con l’impossibilità di celebrare la Santa Messa e ogni altro ufficio del suo ministero. Il 24 settembre 1909 don Olinto Marella viene sospeso a divinis e non può più ricevere l’Eucarestia per ordine a tutte le chiese della diocesi.
Il dolore per questa pena inflitta è intollerabile per il giovane sacerdote che sa di non poter rinunciare al corpo di Cristo. L’ostia, per un sacerdote, è l’unico pane di vita ed è necessaria per vivificarsi. Don Marella chiede così più volte l’annullamento della sospensione a divinis per riottenere l’abilitazione sacerdotale, per cui era disposto ad «umiliarsi in pubblico e a chiedere perdono per la sua condotta».
Per sedici anni però ciò non è avvenuto e don Olinto, oltre a lottare incessantemente per ottenere la riabilitazione, sostituisce la sua tonaca con una marsina nera e nel 1916 si laurea in storia e filosofia, si diploma in Magistero l’anno successivo e diventa professore in vari licei italiani: da Messina a Pola, Rieti, Ferrara, Treviso, Padova e infine Bologna. Si laurea poi in lettere nel 1919 e non smette mai di imparare e di insegnare. Gira mezza Italia per mantenersi e per poter ricevere l’Eucarestia, il suo pane di vita.

L’ARRIVO A BOLOGNA

Nel 1924 arriva a Bologna per una cattedra presso il liceo classico Luigi Galvani, dove insegna fino al 1930 per poi passare al liceo classico Marco Minghetti fino al 1948. Il professor Marella riusciva ad essere sui generis anche come professore, non solo nel suo ruolo di sacerdote. Stravagante nell’abbigliamento, non ordinario nell’insegnamento, stimolava continuamente lunghi dibattiti con i suoi studenti, innovativo e attento ai bisogni dei ragazzi, poco tradizionale nell’approccio pedagogico: il professore sviluppava lunghe conversazioni con i suoi allievi, passando poco tempo in cattedra e molto in mezzo ai banchi, camminando tra i suoi ragazzi. Il suo personale metodo di insegnamento era fondato su una formazione e su conoscenze molto solide, tanto da essere richieste dal Ministero della Pubblica Istruzione nella commissione ministeriale per la scelta dei libri di testo da adottare nelle scuole e nel corso di abilitazione all’insegnamento per le maestre di scuola materna.
Arrivato a Bologna Olinto era stato accolto dalla parrocchia di San Giovanni in Monte, nel pieno centro cittadino, dove sotto la guida di mons. Emilio Faggioli operavano le associazioni Conferenza di San Vincenzo de’ Paoli e il Gruppo amici del Vangelo che offrivano soccorso spirituale e materiale ai più bisognosi. A queste opere si dedicava appena uscito dal liceo, donando tutto il suo tempo libero. Il professor Marella comincia a occuparsi della periferia bolognese, fuori Porta Lame, del cosiddetto Baraccato in cui si viveva immersi nella miseria, nello squallore di baracche occupate dai senzatetto che non avevano altro posto in cui ripararsi. Era come se la città dentro le mura non vedesse cosa accadeva pochi passi, in un concentrato di degrado e abbandono. Con la sua bicicletta, il professor Marella comincia a prendersi cura degli abitanti del Baraccato, i bambini gli si affezionano e cominciano a chiamarlo Padre con affetto e gratitudine. Correva voce che fosse un prete, ma qualcuno la smentiva subito informando che invece si trattava di un professore di storia e filosofia. Per tutti però era un padre buono, generoso. Era Padre Marella.

LA CARITA’

Il card. Giovanni Battista Nasalli Rocca lo osserva con interesse e con ammirazione. Decide di restituirgli il suo ruolo di sacerdote, che mai don Olinto ha lasciato affievolire, per consentirgli di tornare a celebrare la Messa. Il 2 febbraio 1925, nella chiesa di San Giovanni in Monte, don Olinto Marella torna a celebrare la Santa Messa dopo sedici anni di sospensione. Don Marella, il professor Marella, prosegue incessante la sua opera di carità e di assistenza agli ultimi e nel 1936, avendo trovato un bimbo abbandonato in strada, lo accoglie nella sua casa. Apre le porte del suo appartamento in via San Mamolo 23 e comincia ad accogliere orfani tra le mura della sua casa, grazie all’aiuto della madre Carolina che lo segue a Bologna e non lo abbandona fino a che morirà nel 1940. Più di dieci bambini però non riusciva ad accoglierne, così comincia a pagare le rette presso gli istituiti a cui inviava gli orfani che man mano incontrava lungo il cammino. Il bisogno aumentava, gli orfani da accogliere e sfamare erano molti, sempre di più e il suo stipendio e la sua casa non erano sufficienti. Decide così di affidarsi alla carità, tendendo il suo cappello ai passanti e facendosi mendicante, silenzioso e dignitoso. Comincia a chiedere ai bolognesi di mettere qualche centesimo nel suo cappello, nei bar eleganti della città, davanti ai teatri, negli angoli più benestanti del centro. Il suo intento era doppio. Non tanto e non solo raccogliere denaro per sostenere la sua nascente opera, ma consentire ai bolognesi di esercitare la carità, di non restare indifferenti o disattenti di fronte a chi soffre, di farsi strumento di comunione e misericordia. Così, tra via Orefici e via Caprarie, lo sguardo di Padre Marella incontrava le coscienze di un’intera città, chiamata a fare una scelta silenziosa ma fondamentale, tra l’indifferenza e la carità. «Bisogna metterli nell’occasione di fare la carità» ripeteva Padre Marella «per consentire loro di salvarsi nella vita eterna.»

Con la sua questua dignitosa, e a partire dall’esperienza di cappellano della Confraternita San Vincenzo, Padre Marella fonda nel 1940 il Pio Gruppo Assistenza religiosa negli agglomerati dei poveri. Ne fanno parte uomini e donne, tra queste alcune aderiscono alla regola del Terz’ordine Francescano e un paio di anni dopo ne vestono l’abito. A dirigere questa istituzione, conosciuta come quella delle Suore di don Marella, c’è la prof.ssa Elkann, futura suor Caterina. Le suore di don Marella si impegneranno attivamente nell’Opera di Padre Marella fino all’ultimo, fino alla morte dell’ultima suora.

LA NASCITA DELLE SUE OPERE

L’attività caritativa è incessante ma la risposta non è ancora sufficiente, così don Marella fonda i Gruppi-Famiglia: ad alcune famiglie volenterose venivano affidati degli orfani, affinché potessero godere della famiglia «cui tutti abbiamo diritto», nella speranza che l’inserimento in un nucleo familiare potesse ricreare l’affetto, l’attenzione, l’amore che quei ragazzi avevano perduto. Il suo modello era la famiglia, quale luogo di amore e di comprensione.
Il 9 gennaio del 1940 muore Carolina de’ Bei, la sua amata madre, una donna colta, tenace e appassionata che lo affianca per tutta la vita e lo aiuta nelle sue opere educative e di carità. Si tratta di una figura fondamentale nella formazione e nella vita di Olinto Marella. Sempre quell’anno, don Marella incalza con le sue opere di carità e abbozza i primi segni di quella che diventerà la Città dei Ragazzi, un luogo in cui accogliere giovani sbandati, abbandonati, per offrire loro un futuro, a partire dall’istruzione e dal lavoro. Qualche anno più tardi gli riuscirà di vederla prendere vita.
Sempre nel 1940 apre l’asilo Carla Cicognari nell’allora via Vezza, oggi via del Lavoro, e lì costruisce la chiesa dei Santi Carlo Borromeo e Vincenzo de’ Paoli, consacrata nel 1943 dal card. Nasalli Rocca. Nei sotterranei della chiesa e dell’asilo prende corpo l’azione caritativa di Padre Marella che ospita una mensa e un dormitorio per i bimbi e gli sfollati nel pieno della Seconda Guerra Mondiale.
È il 1948 e il professor Marella arriva al pensionamento potendo dedicare tutto il suo tempo alla carità.
Riprende il suo sogno di una città fondata sulla responsabilità e sull’autogoverno, così come aveva sempre insegnato ai suoi allievi, fin dal Ricreatorio Popolare, ai prestigiosi licei cittadini, ai ragazzi del Baraccato e nei suoi gruppi-famiglia. Riesce a fondare ufficialmente la prima Città dei Ragazzi in via Piana, trasformando i vecchi capannoni della nettezza urbana in laboratori artigiani e dando vita alla chiesa di Santa Gemma, in cui ogni domenica prende vita l’offertorio “al contrario”, con la distribuzione di pasti e denaro agli indigenti. I laboratori brulicano di vita e insegnano ai ragazzi il mestiere di falegname, calzolaio, sarto, meccanico. Per i suoi allievi si tratta dell’unica speranza di ricevere un’istruzione e costruirsi un avvenire. Non mancherà mai in don Olinto la profonda missione pedagogica come movente di tutte le sue azioni.

LA CITTA’ DEI RAGAZZI

I suoi ragazzi, i suoi “figli”, cominciano a crescere e non hanno nessuno se non lui, il loro amorevole Padre Marella. Don Olinto matura la consapevolezza che dei ragazzi che non avevano avuto una famiglia avessero bisogno di costruirsene una, per conoscere e trasmettere quell’amore e quella condivisione che solo l’affetto familiare sa dare. Così cerca un luogo per costruire un villaggio artigiano in cui i suoi ragazzi, ormai divenuti maestri artigiani, potessero dare avvio al proprio progetto familiare: sposarsi, fare dei figli e poi andare nel mondo. Nel 1953 getta le basi per la costruzione del Villaggio artigiano della futura Città dei Ragazzi a San Lazzaro di Savena e nel 1956 inaugura le prime case, il padiglione che ancora oggi ospita la sede della sua Opera e la chiesa dedicata alla Sacra Famiglia. Tra il 1960 e il 1968 riesce a completare, con le risorse della sua questua, tutte le case del Villaggio e i padiglioni per continuare a formare i ragazzi in stato di bisogno. Accanto alla sua Città vive lo straordinario fermento creativo e industriale di Dino Gavina, che ospita molti dei ragazzi di Padre Marella all’interno dei suoi laboratori e finisce col dedicare a questo eccezionale sacerdote una delle sue collezioni di mobili di design più famose e vendute, Olinto.

Il riscatto e l’autonomia passano attraverso l’istruzione e il lavoro, questo Padre Marella lo ha sempre in mente e impronta ogni sua attività nel segno dell’autonomia e della responsabilità.
I ragazzi accolti nel Villaggio vivono nell’autogoverno. Ogni anno viene eletto un sindaco, un vicesindaco e tre consiglieri. Ogni laboratorio ha l’istruttore e il capo laboratorio. Ogni ambito ha il suo responsabile: per la chiesa, per la biblioteca, per il refettorio, per lo sport, per il dormitorio, per la banda musicale. Ciascuno è responsabile di qualcosa, tutti erano responsabili del buon governo della città ideale di don Marella. L’impianto pedagogico di Padre Marella era ben delineato già dalla scelta del Ricreatorio: l’educazione religiosa non deve sovrastare il flusso laicale e civile della crescita, ma essi devono convivere in un reciproco rispetto.

Nel 1968 Padre Olinto Marella è anziano e malato, si trasferisce nella Città dei Ragazzi, e trascorre gli ultimi mesi della sua vita circondato dall’affetto dei suoi figli. A stargli accanto, oltre ai suoi ragazzi, padre Alessandro Mercuriali, suo erede spirituale, cui sarà affidato il compito – insieme ad alcuni dei suoi figli – di portare avanti l’Opera fondata da Padre Marella e di continuare a riempire quel suo cappello che tanto aveva consentito di ottenere per i più bisognosi. La sua Opera doveva poter fare affidamento sulla cooperazione di personale religioso, doveva conservare e preservare il suo carattere laicale, senza affievolirne l’autonomia e la responsabilità sotto tentazioni interventiste che ne potessero alterare lo spirito originario.

Don Olinto muore il 6 settembre 1969, lasciando sgomenta l’intera città di Bologna e consegnandole un impegno a non rimanere mai distratti di fronte alla sofferenza e alla povertà, a prendere parte e scegliere la carità sull’indifferenza.

 

Testi tratti da PADRE MARELLA. Mano di Dio, mano di carità, mano di perdono di Claudia D’Eramo (prefazione di S.Em. card. Matteo Maria Zuppi), EMI