Ho avuto come professore di filosofia un santo. Sì, un santo. Quando insegnava a me era laico. Poi morì sua madre, e poco dopo prese i voti e divenne don Marella. A Bologna lo conoscono tutti, ma solo lì. Lo si vedeva per le strade a mendicare, completamente dedicato alla sua missione. Mi insegnò una cosa: a vivere per gli altri e a prendere questa vita come un passaggio. Insegnamento che peraltro io non seguii. In un certo senso oggi lo invidio. È morto ignaro di se stesso, ignaro di essere santo. È morto ignoto a sé e agli altri. Un milite ignoto della fede.
Ciò che ho da dire su Padre Marella posso, e anzi voglio dirlo pubblicamente, senza bisogno di spellarmi la lingua. Conobbi Padre Marella non a Bologna, ma a Rieti, dove lo ebbi per tre anni professore di filosofia. Non aveva ancora preso i voti ma era già un santo, e come tale noi studenti lo sentivamo. Il poco che gli avanzava dal mantenimento della sua vecchia mamma, di cui era al trepido servizio, lo dava ai poveri. A noi dedicava lezioni stupende che finivano sempre con questo ammonimento: “Quando avrete capito tutto, avrete capito ben poco. L’intelligenza umana non è che un fiammifero acceso in un mare di tenebre; non ne rischiara che una minima frangia, il resto è un mistero che si chiama Dio”.
Rividi Padre Marella in abiti sacerdotali tanti anni dopo nell’atrio di un cinema di Bologna. Faceva un freddo polare. Raggomitolato su un sedile, aspettava la fine dello spettacolo per mendicare qualche aiuto per i suoi orfanelli; ne aveva a carico, mi disse, varie decine. Mi riconobbe, mi abbracciò, mi chiese cosa avevo fatto della mia vita. Gli risposi senza Sforzo: “Nulla’; perché al paragone con la sua, mi pareva proprio così. Lo accompagnai per un tratto di strada (non volle il taxi): era molto vecchio e si reggeva male in piedi, ma doveva raggiungere e sfamare i suoi orfanelli. Ecco cosa aveva fatto, lui, della vita sua.
Della santità di don Marella mi sono accorto prima della Chiesa. Ero sui banchi del liceo quando lui salì sulla cattedra di filosofia. Aveva, esteriormente, tutti i requisiti per farsi corbellare dalla scolaresca: una lunga barba color rame, una redingote che gli scendeva fino ai piedi, un collare bianco da clergyman avanti lettera, e uno sguardo di fanciullo, fra l’innocente e lo smarrito. Ci disse subito di non far troppo assegnamento sulla filosofia, “perché la filosofia – ci spiegò – non è che la palestra della Ragione, la quale non conduce alla Verità, cui si giunge, quando vi si giunge, per altre strade”.
Il senso di questo discorso, che lì per lì ci lasciò molto perplessi, lo capimmo, o almeno io credo di averlo capito, molto più tardi. Ma uria cosa invece capimmo subito: che quello non era un professore come gli altri. Aveva qualcosa di diverso… un qualcosa di cui ebbi conferma quando di lì a qualche anno lo ritrovai prete, ma prete `barbone- e mendicante per nutrire altri barboni. Allora seppi da un prelato della Curia di Bologna che prete era stato anche prima di fare il professore di filosofia, ma che la Chiesa lo aveva sospeso a divinis per via – credo – di certe sue tendenze `moderniste”… E siccome di lì a poco papa Giovanni mi invitò a un lungo colloquio, gli chiesi, forse un po’ sfrontatamente (c’era monsignor Capovilla) come aveva potuto la Chiesa non capire ciò che avevo capito io, laico e miscredente: che quello era un santo. “Eh! – sospirò il Papa sorridendo – non ci siete che voi laici a credere e a pretendere che la Chiesa sia infallibile. Come tutte le organizzazioni terrene, anche la Chiesa qualche volta sbaglia”